sabato 31 gennaio 2015

LA NONNA

I racconti della signora Maria  



San Salvo e nonna Caterina
 di Maria Mastrocola Dulbecco
   
maria Mastrocola

            Non ti ho mai dimenticata.
Eravamo sedute su quel balcone nelle lunghe sere d’estate io e te, nonna.
Tu pregavi. Io sognavo.
Tu pregavi. Io guardavo le stelle.
Quelle stelle, complice il buio, erano nitide e lucenti.
Qualche volta smettevi di pregare e parlavi con me. Mi raccontavi episodi della tua vita quando mi sentivi predisposta ad ascoltarti. Ricordavi cosa avevano raccontato a te da bambina e osservando la luna piena, una sera mi hai fatto notare come in quel disco luminoso si vedesse nitidamente la figura di un uomo che cercava di oscurarla. Mi dicevi “Vedi? È Bertoldo. Con un fascio di sterponi cercava di oscurare la luna e nel tentativo di coprirla, perché gli altri non lo vedessero mentre rubava i covoni di grano, vi rimase attaccato e fu condannato a restarci per l’eternità”.
Io vedevo chiaramente la figura da te indicata e pensavo a quel povero Bertoldo che sicuramente non si trovava a proprio agio in quella scomoda posizione.
Sono poi andati sulla luna, nonna, quando tu non eri più con noi. Quelle ombre non erano di Bertoldo, ma delle montagne ed io non ho potuto dirtelo. Non volevo crederci, ma dimostrarono che era così. In verità lo sapevamo anche prima, ma io preferivo credere a te.
Hanno cominciato così a distruggere i miei sogni.
Tu pregavi. Io fantasticavo.
No, non ricordo amore.
Già da piccola avvertivo che in quel paese non c’era calore, sapevo che sarei dovuta andare via.
Le strade erano di fango e le case non avevano acqua corrente.
Il banditore, a pagamento, annunciava dove andare a comprare i piselli freschi e se in piazza era arrivato il pesce o la frutta di stagione a buon prezzo. Si faceva precedere da due squilli e poi con quanto fiato aveva in gola reclamizzava la merce e il luogo.
I carretti tirati da asini e cavalli, partivano al mattino presto per i campi e tornavano alla sera in fila superando la salita della “curva” oppure quella più ripida della “fonte”.
Fatti importanti ne accadevano pochi, qualche nascita, un matrimonio, le due feste patronali del paese quando arrivavano persino i gelati.
Non dimentico due fatti importanti. Due omicidi a distanza di qualche anno uno dall’altro. La mia piccola mente non poteva concepire come un fratello potesse togliere la vita ad un altro. Non lo capivo. Non c’era amore.
Eppure le persone si sposavano e i bambini nascevano come in ogni altro posto.
Non c’era calore in quel paese, non c’era tenerezza, le carezze erano gesti ai quali gli abitanti non erano avvezzi. Gesti di cui ci si vergognava.
Il fango, il fango abbondava nell’inverno.
L’acqua sporca si buttava dalla finestra, un po’ sparsa perché si asciugasse in fretta. Quando era più abbondante la si portava con una tinozza fino al lato della strada dove veniva rovesciata in una cunetta scavata alla meglio, nella quale scorreva un rigagnolo che provvedeva a convogliare queste acque tutte nella medesima direzione, la “Forma”, un canale artificiale che si trovava a destra del paese.
Non c’era grande povertà e neppure grande ricchezza.
Il fango, tanto fango specialmente se pioveva e poi tantissimo quando subito dopo la guerra si fecero gli scavi per le fognature e per portare l’acqua nelle case.
 
In quel periodo era possibile camminare per le strade, soltanto grazie alla buona volontà di molti che, spinti dalla necessità, avevano provveduto a posare uno dopo l’altro, dei grossi sassi lungo i percorsi abituali.
Non c’era amore. Poi arrivarono le suore, delle piccole umili suore che si adattarono ai nostri usi e ci insegnarono che c’era l’amore di Gesù.
Accolsi nel mio cuore questo sentimento grande, ma anche questo lo tenni celato come ogni altro sentimento senza mai tradire emozioni che sarebbero sembrate strane.
Contegno, freddezza, rudezza.
Questo è il paese dove sono cresciuta e dove ritorno saltuariamente trovandolo sempre diverso ricordando che: io ero qui quando questa terra era ostile e regalava solo poesia, troppo poco per vivere e troppo per una pace senza risorse.
Ora tutto è in fermento, tutto in costruzione.
 I volti noti non ci sono più o ne vedi pochi, gli altri, i nuovi arrivati, sono tanti e li vedi padroni di quei tuoi sogni defraudati a te dalla vita che lenta, inesorabile, ti fa guardare avanti ma non ti permette di dimenticare.
Amavo il mare, il suo fragore lontano nelle giornate di burrasca.
Alla sera uscivo sull’uscio di casa e nel buio della notte mi lasciavo rapire da quel rumoreggiare lontano e affascinante che proveniva da quell’enorme massa d’acqua in movimento.
L’Adriatico doveva agitarsi moltissimo se a tre chilometri di distanza ne percepivo un suono così distinto.
In quelle notti il cielo era limpido e il mare si sostituiva alle stelle per regalarmi sensazioni stupende.
La battaglia della vita è ora come quel mare in burrasca.
Il mio mare è lontano, il suo rumore non giunge fino al mio udito.
Quella casa in mezzo agli ulivi non esiste più, le nuove costruzioni l’hanno soffocata; i dintorni hanno subito una trasformazione tale da rendere irriconoscibili quei luoghi ormai vivi solo nella memoria di chi li ha vissuti.
Era un casa dove si era sempre in attesa di qualcuno che doveva arrivare.
Prima la nonna che aspettava suo figlio che viveva al nord, poi mia madre che aspettava noi e di questo aspettare c’era tutta la speranza e il desiderio del ritrovarsi che aiutava a vivere.
Vivere. La vita cos’è.
La bontà cos’è.
La cattiveria cos’è. Cos’è la lontananza.
Spesso mi sono sentita come un’emigrante in patria. Si è sempre emigranti quando si va via, giovanissimi, da dove abbiamo imparato a conoscere, al mattino, da quale parte sorge il sole, e alla sera, dove tramonta. Si diventa senza più riferimenti.
Lontana da quei luoghi, non ho più saputo discernere l’alba e il tramonto, schiacciata tra il cemento e gli affanni.
Quando ho preso il treno, alle quattro del pomeriggio, in quella piccola stazione sulla direttrice Lecce-Milano, lasciavo alle spalle un paese che viveva arroccato sulla prima altura situata a pochi chilometri dal mare. Anche la breve distanza dalla stazione ferroviaria rappresentava un percorso difficile da superare poiché, anche se non sto parlando del medioevo, i mezzi di comunicazione e trasporto con i centri più vicini erano inesistenti.
Si viveva nel silenzio o meglio nel silenzio dei rumori familiari, quelli del fabbro, del falegname, anche quello della macchina da cucire di mia madre, delle campane e dei passi che risuonavano nelle strade.
Nei pomeriggi estivi, il paese dormicchiava e la calura conciliava le pennichelle dei suoi abitanti.
 
Eugenio suonava il “Vent’unora”, non ne conosco il significato ma allora era il tardo pomeriggio. In tempo di mietitura gli addetti a falciare il grano si fermavano per una merenda.
Poi Eugenio, che era il sacrestano suonava il “Vespro”, l’ “Ave Maria” e terminava la sua fatica chiudendo la porta della chiesa e avviandosi verso casa con un’andatura leggermente curva su un lato e un fare lento e pensieroso.
Suonava poi l’ “alba”, la “missitella”, il “mezzogiorno”.
Le campane scandivano la vita di tutti gli abitanti.
Alla domenica poi, in occasione della “messa cantata” suonavano a distesa.
Mentre queste scampanellavano, le donne in casa erano affaccendate ai fornelli e dalle finestre uscivano profumi di carne sul fuoco, pranzi riservati solo alla domenica poiché durante la settimana, sui deschi imperava solo la pasta asciutta impastata in casa, condita con semplice pomodoro e magari con una spruzzatina di pecorino.
La monotonia del suono delle campane che scandivano il tempo nell’arco della giornata, veniva rotta solamente dal diverso scampanio che annunciava una morte o l’arrivo di nubi minacciose che promettevano vento e grandine magari proprio in prossimità del raccolto del grano coltivato a grande maggioranza.
Il suono che annunciava a tutti la dipartita di uno degli abitanti era greve e lento. Rintocchi tristi che venivano ripetuti più volte a distanza ravvicinata e il numero delle volte era determinato dall’importanza del personaggio.
A quel suono le donne si affacciavano sull’uscio ad interrogarsi.
La vecchia Zia Maria chiedeva a Carmela: “Chi è morto?” “Non so” facevo eco zia Serafina affacciandosi alla finestra.
La nonna, Caterina, si spingeva più in là e arrivava sino in cima alla “ruella”che sbucava sul corso principale. Al primo passante chiedeva e dopo parecchi “non so” che duravano al massimo un quarto d’ora, di rimbalzo arrivava il nome.
Allora, la donna di casa si pettinava i capelli raccolti a crocchia sulla sommità del capo, si metteva un fazzoletto in testa legato sotto il mento, possibilmente nero, e correva a portare il primo saluto della famiglia, ai parenti del morto i quali erano già pronti per ricevere quelle visite seduti attorno al defunto adagiato sul letto allestito per l’occasione con la massima cura.
Alla sera andavano gli uomini, mentre le donne si organizzavano per la veglia notturna.
Prima della guerra non esistevano “thermos”, ma poi arrivarono anche quelli e così il caffè veniva portato caldo per tutti poiché in quella casa, mentre c’era il morto presente non si sarebbe acceso fuoco alcuno per cibi e bevande calde.
Ogni familiare era rigorosamente seduto al posto che gli competeva a fianco del letto, secondo il suo grado di parentela.
La stanza funebre veniva liberata da tutti i mobili trasportabili e al loro posto venivano allineate sedie in gran quantità così che i visitatori trovassero posto a sedere in circolo attorno al letto funebre.
Per quasi due giorni, tutto il paese sfilava e si soffermava in questa stanza come a voler tenere compagnia al morto, per l’ultima volta.
Il motivo non era solo quello; ci si ritrovava un po’ tutti ed era l’occasione per conversare, anche se sommessamente.
Qualcuno si fermava più del necessario per raccogliere maggiori informazioni sugli ultimi avvenimenti degli altri o aspettando magari qualche persona che non vedeva da tempo. A bassa voce si scambiavano notizie sulle loro famiglie e sui fatti dei paese e non di rado, si gettavano le basi per combinare matrimoni tra giovani che neppure si conoscevano, lasciando alla discrezionalità dei genitori valutare la convenienza sociale ed economica di favorire un simile approccio.
  
I componenti della famiglia del malcapitato, a turno, piangevano il morto a voce alta e con una specie di cantilena rievocavano la vita di costui esaltandone le qualità.
Nel caso il defunto in questione, in vita, fosse stato un po’ carognetta verso alcuni familiari, costoro coglievano l’occasione per intercalare le cantilene con frecciatine, più che dirette al morto, dirette alle persone in vita che avrebbero beneficiato dei torti da loro subiti e non raramente i chiamati in causa rispondevano con lo stesso indiretto sistema.
In questi casi l’eco si estendeva fuori dalla stanza, fuori dalla casa, così che i curiosi visitatori diventavano più numerosi per non perdersi le varie battute.
L’avvenimento di una morte si trasformava così in un’occasione per comunicare e conoscere le storie di attualità del paese. Era la televisione o il settimanale scandalistico dell’epoca, un bollettino che veniva ascoltato e riferito a chi non era presente.
Era cronaca rosa, cronaca gialla, argomenti sussurrati con autentico mistero, cronaca nera. Tutto il paese passava sotto i racconti delle croniste del tempo poiché le più informate erano sempre le donne.
La signora “bene” che non usciva mai da casa, mandava la serva a raccogliere informazioni e questa si documentava scrupolosamente per riferire ogni particolare che riteneva potesse interessare la sua “padrona”.
Ricordo, per tutti, Donna Elvira (casa che frequentavo da bambina) e la sua serva Francesca.
E queste erano poi le notizie sulle quali si sarebbero accentrati tutti i discorsi fino a nuovi avvenimenti.
Eugenio espletava tutte le incombenze relative ai funerali.
Suonava le campane a morto, preparava il catafalco, le sedie in chiesa e non dimenticava niente. Tutto veniva allestito secondo i desideri dei familiare e in proporzione alla retribuzione concordata.
Lui, Eugenio, suonava anche l’organo in verità un po’ sfiatato a causa del mantice ridotto in cattive condizioni e cantava i salmi con un biascicato latino che non era necessario fosse comprensibile; l’unico latino ‘conosciuto’ era infatti quello delle preghiere recitate dagli anziani del paese ascoltando le quali si poteva intendere quanto poco se ne masticasse.
Naturalmente c’era anche il parroco, ma Don Oreste poco si occupava di tali faccende.
Viveva ritirato nella sua casa dedicandosi al proprio arricchimento intellettuale che poteva coltivare anche grazie al fatto che egli possedeva una delle poche radio esistenti in paese che tra l’altro, durante la guerra, (si diceva che ascoltasse “Radio Londra”) gli permetteva di essere sempre aggiornato sugli ultimi bollettini di guerra.
L’ultimo atto della vita vissuta in quel paese era quello di essere accompagnato dal parroco e da tutti gli abitanti lungo il viale alberato che conduceva al cimitero.
Dal 1944 in poi nei discorsi di tutti, gli avvenimenti venivano indicati come accaduti:
-          prima della guerra
-          dopo la guerra.
                                                                    Maria Mastrocola Dulbecco
 
 
 

giovedì 29 gennaio 2015

La sera

LA SERA
(Durante una vacanza a San Salvo)
 di Maria Mastrocola Dulbecco
   
            
 
C’è un momento della sera in cui è particolarmente gradevole indugiare per le strade periferiche dei paesi.
È quel momento che precede la sera ed è troppo presto per accendere le luci e troppo tardi per distinguere bene il circostante.
È un’atmosfera magica, da assaporare con il fiato sospeso, tanto l’attimo è fuggente.
Nell’aria si avverte qualcosa che fa vibrare il nostro essere e la nostra sensibilità si fa più attenta.
Sono in vacanza e mi è caro passeggiare a quell’ora, lungo quella strada che percorrevo ogni giorno, ragazzina, inseguendo i miei sogni.
Allora quella strada era silenziosa e quasi deserta, portava in periferia, fiancheggiata da oliveti e da stradine che si immettevano nei campi a interrompere la linea continua di quell’asfalto bruno.
Le persone che incontravo erano poche, ma le conoscevo tutte.
Ora, con meno sogni, ma con il desiderio di rivivere emotivamente quei momenti, cammino e osservo attenta.
Tutto innanzi al mio sguardo è uguale negli sfondi, nel mare che intravedo tra le nuove case ma è diverso nei particolari. È uno scenario molto più popolato, però io mi sento sola.
Nessuno saluta me e nessuno ho da salutare io.
Ho provato più giorni a rifare quel percorso e tutto si ripete sempre uguale.
Suggestionata dall’ora e sicuramente dalla recente lettura di un romanzo di letteratura fantastica di Bioy Casares, mi sembra di percorrere una strada popolata da persone che ripetono periodicamente la stessa strada, con passi e gesti sempre uguali e alla stessa ora del giorno precedente.
Come nell’ “Invenzione di Morell” il libro citato sopra, le persone che vedo affollare il viale, in quel magico silenzio senza più ombre, scivolano silenziose e sembra obbediscano ad un preciso ordine prestabilito.
In silenzio, senza interruzione, si avvicendano e ricevo l’impressione di vedere persone che agiscono in uno scenario irreale e reale allo stesso tempo, appunto come nell’invenzione di Morell che consisteva nell’essere riuscito a riprodurre un periodo di vita ripetitivo che si attuava azionato da una complessa macchina messa in movimento dall’alta marea.
Vi sono immersa ma non ne faccio parte. Quel mondo fantastico prende consistenza nei miei pensieri. Io desidero far parte del loro mondo ma contemporaneamente me ne sento esclusa.
C’è una barriera a dividermi da loro: la barriera del tempo.
Il loro mondo mi appare uguale, ripetitivo di anno in anno. Gli stessi volti, gli stessi gesti. Ripropone situazioni ed azioni in cui non è possibile immettersi e dove per caso mi trovo a passare senza nessuna possibilità di interloquire con loro.
La tentazione di fermarmi e chiedere se vivo nella loro realtà è forte, tento di fare un gesto per fermare qualcuno, lo faccio.
Nessuno si accorge della mia presenza.
Proseguo la mia strada affascinata, guardo quell’imbrunire che tende ormai alla notte ed affretto il passo verso casa.
Quella casa che appartiene al mio presente e corro a ritrovare quegli affetti senza i quali mi è difficile continuare il cammino.
                                                                                        Maria  Mastrocola Dulbecco
 
 

mercoledì 21 gennaio 2015

la cas a lu quart'abball


LA  CAS  A  LU  QUART’ABBALL

 di Maria Mastrocola Dulbecco

 

  La prima casa che ricordo di aver abitato era sita sulla strada più larga del paese, via Roma. Il posto era quasi all’inizio di questa strada dove il marciapiedi si allargava notevolmente dopo un inizio a spigolo dall’angolo della strada precedente dove c’era il negozio di un orefice: Piscicelli.
    Era ad un solo piano con una porta ed una finestra che davano sul davanti della casa, verso la strada, esse illuminavano le due stanze che servivano da cucina , poi pranzo e da laboratorio per l’attività di mia madre e forse anche come camera per mia nonna Caterina..
    In questo versante il sole batteva al mattino ma nel pomeriggio, l’ombra regnava a regalare frescura in estate dove con la mia preziosa sediolina impagliata, avevo il permesso di sedermi a giocare vicino all’uscio di casa.
    Nel versante opposto c’era la grande camera da letto della mamma, da quella parte vi era un finestrino non molto grande ed una porta che davano sull’orto-giardino.
    Ricordo poco di quell’orto. Nel centro vi era una piccola casetta che attirava la mia attenzione ma la mamma non mi mandava volentieri forse perché d’estate era il posto più assolato e aveva anche il timore che potessi pungermi con le ortiche che, non so se è solo la mia fantasia a ricordarlo, abbondava in quell’orto coltivato solo in minima parte.
    Il mio ricordare non può essere molto preciso se da quella casa andammo via poco prima che compissi sei anni. Era l’anno in cui cominciai ad andare a scuola ed in virtù di una legge che ammetteva l’iscrizione alla prima elementare in anticipo per tutti quelli che compivano gli anni entro l’anno vecchio.
    Non avevo frequentato l’asilo poiché ricordo di non aver sopportato il rumore che il vocio dei bambini faceva rimbombare in quella grande aula di S. Nicola che era stata una vecchia chiesa. Mi accompagnava la maestra Candalina e aveva riferito alla mamma il mio non sopportare l’ambiente tanto che mi ero seduta al banco tappandomi le orecchie.  Quindi la mia esperienza all’asilo, durò due giorni.
    Altra esperienza fu la scuola che mi attirò subito e che frequentai con piacere e profitto.
    Avevo una sorella più grande, ma lei andava già a scuola. anzi, terminava proprio quell’anno le elementari e quei cinque anni in più facevano si che non la considerassi una compagna di giochi. Lei, ai miei occhi, era una signorina. Poi con i suoi vestitini così belli e con cappellini e berrettini, messi di traverso sulla fronte…era veramente grande e la guardavo con ammirazione.
    Conservo ancora alcune fotografie di quel periodo appunto con me che ero un piccolo imbronciato frugoletto nero (per via dei miei capelli nerissimi) issata su una sedia al centro , con mia madre da un lato e dall’altra mia sorella con il suo soprabitino elegante, le calzine bianche e il berrettino pure bianco con un’aria da donnina piena di sussiego.


 In quella foto, fatta da un fotografo ambulante di passaggio che stendeva una coperta sul muro per fare da sfondo e qualche volta, come in questo caso, il suo obiettivo saliva al di sopra di quello sfondo improvvisato e  coglieva i mattoni che formavano il muro retrostante.
    Questi fotografi ambulanti giravano con una macchina fotografica grande e nera, issata su un trespolo che poi appoggiavano con cura per terra e per sviluppare le foto, chiedevano una bacinella piena di acqua dove immergevano quei rettangoli di carta dai quali vedevamo apparire le immagini scattate tra lo stupore e l’ammirazione per quell’uomo che operava un tale prodigio con le sue strane magie.
    Ricordo nitidamente queste scene anche se ero piccolissima, evidentemente mi avevano impressionata moltissimo.
    In seguito, sempre in quella casa, arrivò il fratellino che ebbe il buon senso di arrivare in primavera, il quattordici Marzo ma  stranamente, quel giorno arrivò anche una nevicata fuori programma, era il 1939 ed arrivò alcuni mesi prima che ci trasferissimo nel nuovo quartiere in Corso Garibaldi in una casa di tre piani.
    Mamma ha comprato questa casa in un quartiere dove non passavano tante macchine perché, a suo dire, temeva per la nostra incolumità nella vecchia casa (non so sen passavano cinque o sei auto al giorno!
    Ricordo che prima di comprarla, una sera, mamma mi prese per mano e mi portò a vederla.
    Era situata nel III  vicolo corso Garibaldi, al terzo piano aveva anche una camera con un balcone che dava alla “ruall” successiva e i due balconi avevano una inferriata particolarmente  bella e io cominciai a pensare che avrei trascorso molto tempo su quei balconi, (fu veramente così).
    Quella casa aveva un portone importante munito pure di “tuzzulataur”  battocchio per chiamarci da sotto.
    Pensavo già che da quel balcone potevo aspettare la mia amichetta (mi era stata assegnata senza conoscerla ) si chiamava Maria, come me, e fu poi così che per cinque anni fummo compagne di banco ed in seguito, diventando adolescenti in paese ci chiamavano le due Marie.
    Lei abitava in corso Garibaldi  in un  palazzo, vicino alla vecchia chiesa S. Nicola, dove dividevano  gli alloggi con i suoi zii, il suo era all’ultimo piano.
    Aveva anche un orto dietro con un albero di gelsi dove ci arrampicavamo con i quaderni per preparare le lezioni.  Di lei ricordo molto anche la sua mamma, donna Giuseppina che mi ha voluto molto bene e quando uscivamo ci raccomandava il modo in cui dovevamo comportarci.
    Quelle poche volte che abbiamo preso il pulman per andare dalla pettinatrice, a Vasto, ci raccomandava di salutare  quando vi salivamo, cosa che ci faceva sorridere e proprio non lo facevamo.
    Il mio paese e i miei ricordi, sono un fiume in piena e ne ho parlato molto in altri racconti. 
Per ora mi fermo.
                                                                        Maria Mastrocola Dulbecco
 
 
 

lunedì 19 gennaio 2015

Pensiero dall'abruzzo


WWW.SANSALVO@ntica.IT





La signora Maria Mastrocola Dulbecco

di Fernando Sparvieri 


La signora Maria
(Una Scrittrice con la  "S"  maiuscola di San Salvo)
   di Fernando Sparvieri

.  
La signora Maria Mastrocola, la seconda seduta da sinistra, in un momento conviviale e di relax 
all'UNITRE di Rivoli (TO)  
 
Non so come definire la signora Maria Mastrocola, maritata Dulbecco, sansalvese autentica, emigrata nel 1954 in quel di Torino, che ho avuto l’immenso piacere e l’onore di conoscere attraverso la mia pagina di Facebook SanSalvoantica.it
Qualsiasi  aggettivo per descriverLa mi sembra superfluo, non appropriato, fuori  luogo.
La signora Maria, così come affettuosamente ho imparato a chiamarLa in questi primi giorni del 2015, è certamente una donna straordinaria, fuori dal comune, dotata di grandi virtù morali, corroborate da una sensibilità d’animo e da una forte personalità, che la rendono unica ed interessante.
Sansalvese verace, il destino, che a volte scrive pagine di vita a suo piacimento,  l’ha spinta felicemente lontano dalla sua amata terra d’origine, a cui non ha mai smesso tuttavia di pensare, conservando indelebilmente, nel cuore e nella mente, ricordi belli e brutti della sua infanzia.   
Oggi, la signora Maria, vive in quel di Rivoli (TO), che come Ella stessa scrive “potrebbe definirsi una estensione di Torino ed era una residenza SABAUDA con una storia altrettanto interessante”. 
E’ una donna colta.
“Pur non avendo avuto da bambina la possibilità di continuare gli studi” , mi scrive,  “tutto il mio saper scrivere lo devo al mio maestro Ugo Marzocchetti e alla mia madrina ins. Robles che dopo le elementari mi ha impartito lezioni private, come si usava allora per le donne che non potevano proseguire gli studi poiché a San Salvo non vi erano altre scuole dopo le elementari e i mezzi per Vasto erano inesistenti”.
La nostra signora Maria (dico nostra perchè ci appartiene), nonostante non abbia avuto  la possibilità di proseguire gli studi quando era bambina, condizione sociale, prima e dopo la guerra, comune alla stragrande maggioranza dei giovani sansalvesi, è però cresciuta con la penna in mano, studiandio e consumando fiumi di inchiostro, annotando e raccontando, prima a se stessa e poi anche agli altri, senza alcuna pretesa, tutto ciò che la rendeva felice ed appagata. ” Ho sempre scritto sin da bambina; ho ancora pensieri scritti con la penna che si intingeva nel calamaio”, così mi scrive in una sua e-mail.  
Questa sua innata passione per gli studi e per la scrittura l’hanno resa scrittrice vera, autentica, una penna fluida ed  avvincente, da cui ne viene fuori, come un fiume in piena, un’arte narrativa che si intreccia, come per magia, tra poesia e cronaca di un mondo antico, oggi forse surreale, ma bello da raccontare.
Oggi, la signora Maria  è docente dell’ UNITRE di Rivoli, che conta oltre 1000 iscritti, ove cura con grande passione, professionalità ed amore, da circa dieci anni, “Il laboratorio di scrittura” , occupandosi  anche di una pubblicazione su  Unitre Rivoli  “sez  giornalino”.  Nel web , inoltre,  fa parte della redazione di Rossovenexiano e  scrive per “La nostra commedia”.
Non potevano mancare tra i suoi scritti ricordi e pensieri della sua San Salvo che ha già pubblicato su numerosi siti web.
La penna è stato lo strumento con il quale è riuscita ad essere legata, nonostante la lontananza, con la sua terra natia,  con la quale è rimasta avvinta in una sorta di cordone ombelicale, impossibile da recidere.  
Sul questo sito pubblicherò taluni suoi racconti sulla misera San Salvo della sua infanzia.
Questo è  per me, e credo di interpretare il pensiero di tutti i sansalvesi, motivo di grande onore ed orgoglio.
Grazie signora Maria.
 
Fernando Sparvieri