sabato 30 agosto 2014

Nonna Caterina


                                        NONNA  CATERINA

 

Non ti ho mai dimenticata.

Eravamo sedute su quel balcone nelle lunghe sere d’estate io e te, nonna.

Tu pregavi. Io sognavo.

Tu pregavi. Io guardavo le stelle.

Quelle stelle, complice il buio, erano nitide e lucenti.

Qualche volta smettevi di pregare e parlavi con me. Mi raccontavi episodi della tua vita quando mi sentivi predisposta ad ascoltarti. Ricordavi cosa avevano raccontato a te da bambina e osservando la luna piena, una sera mi hai fatto notare come in quel disco luminoso si vedesse nitidamente la figura di un uomo che cercava di oscurarla. Mi dicevi “Vedi? È Bertoldo. Con un fascio di sterponi cercava di oscurare la luna e nel tentativo di coprirla, perché gli altri non lo vedessero mentre rubava i covoni di grano, vi rimase attaccato e fu condannato a restarci per l’eternità”.
Io vedevo chiaramente la figura da te indicata e pensavo a quel povero Bertoldo che sicuramente non si trovava a proprio agio in quella scomoda posizione.
Sono poi andati sulla luna, nonna, quando tu non eri più con noi. Quelle ombre non erano di Bertoldo, ma delle montagne ed io non ho potuto dirtelo. Non volevo crederci, ma dimostrarono che era così. In verità lo sapevamo anche prima, ma io preferivo credere a te.

Hanno cominciato così a distruggere i miei sogni.
Tu pregavi. Io fantasticavo.
No, non ricordo amore.

Già da piccola avvertivo che in quel paese non c’era calore, sapevo che sarei dovuta andare via.
Le strade erano di fango e le case non avevano acqua corrente.
Il banditore, a pagamento, annunciava dove andare a comprare i piselli freschi e se in piazza era arrivato il pesce o la frutta di stagione a buon prezzo. Si faceva precedere da due squilli e poi con quanto fiato aveva in gola reclamizzava la merce e il luogo.
I carretti tirati da asini e cavalli, partivano al mattino presto per i campi e tornavano alla sera in fila superando la salita della “curva” oppure quella più ripida della “fonte”.
Fatti importanti ne accadevano pochi, qualche nascita, un matrimonio, le due feste patronali del paese quando arrivavano persino i gelati.
Non dimentico due fatti importanti. Due omicidi a distanza di qualche anno uno dall’altro. La mia piccola mente non poteva concepire come un fratello potesse togliere la vita ad un altro. Non lo capivo. Non c’era amore.
Eppure le persone si sposavano e i bambini nascevano come in ogni altro posto.
Non c’era calore in quel paese, non c’era tenerezza, le carezze erano gesti ai quali gli abitanti non erano avvezzi. Gesti di cui ci si vergognava.
Il fango, il fango abbondava nell’inverno.
L’acqua sporca si buttava dalla finestra, un po’ sparsa perché si asciugasse in fretta. Quando era più abbondante la si portava con una tinozza fino al lato della strada dove veniva rovesciata in una cunetta scavata alla meglio, nella quale scorreva un rigagnolo che provvedeva a convogliare queste acque tutte nella medesima direzione, la “Forma”, un canale artificiale che si trovava a destra del paese.
Non c’era grande povertà e neppure grande ricchezza.
Il fango, tanto fango specialmente se pioveva e poi tantissimo quando subito dopo la guerra si fecero gli scavi per le fognature e per portare l’acqua nelle case.
In quel periodo era possibile camminare per le strade, solamente grazie alla buona volontà di molti che, spinti dalla necessità, avevano provveduto a posare uno dopo l’altro, dei grossi sassi lungo i percorsi abituali.
Non c’era amore. Poi arrivarono le suore, delle piccole umili suore che si adattarono ai nostri usi e ci insegnarono che c’era l’amore di Gesù.
Accolsi nel mio cuore questo sentimento grande, ma anche questo lo tenni celato come ogni altro sentimento senza mai tradire emozioni che sarebbero sembrate strane.
Contegno, freddezza, rudezza.
Questo è il paese dove sono cresciuta e dove ritorno saltuariamente trovandolo sempre diverso ricordando che: io ero qui quando questa terra era ostile e regalava solo poesia, troppo poco per vivere e troppo per una pace senza risorse.
Ora tutto è in fermento, tutto in costruzione. I volti noti non ci sono più o ne vedi pochi, gli altri, i nuovi arrivati, sono tanti e li vedi padroni di quei tuoi sogni defraudati a te dalla vita che lenta, inesorabile, ti fa guardare avanti ma non ti permette di dimenticare.
Amavo il mare, il suo fragore lontano nelle giornate di burrasca.
Alla sera uscivo sull’uscio di casa e nel buio della notte mi lasciavo rapire da quel rumoreggiare lontano e affascinante che proveniva da quell’enorme massa d’acqua in movimento.
Allora abitavo un campagna di fronte al mare dopo aver vissuto tra le "ruelle" di Corso Garibaldi-
L’Adriatico doveva agitarsi moltissimo se a tre chilometri di distanza ne percepivo un suono così distinto.
In quelle notti il cielo era limpido e il mare si sostituiva alle stelle per regalarmi sensazioni stupende.
            La battaglia della vita è ora come quel mare in burrasca.
Il mio mare è lontano, il suo rumore non giunge fino al mio udito.
Quella casa in mezzo agli ulivi non esiste più, le nuove costruzioni l’hanno soffocata; i dintorni hanno subito una trasformazione tale da rendere irriconoscibili quei luoghi ormai  vivi solo nella memoria di chi li ha vissuti.
Era un casa dove si era sempre in attesa di qualcuno che doveva arrivare.
Prima la nonna che aspettava suo figlio che viveva al nord, poi mia madre che aspettava noi e di questo aspettare c’era tutta la speranza e il desiderio del ritrovarsi che aiutava a vivere.

Vivere. La vita cos’è.
La bontà cos’è.
           La cattiveria cos’è. Cos’è la lontananza.

Spesso mi sono sentita come un’emigrante in patria. Si è sempre emigranti quando si va via, giovanissimi, da dove abbiamo imparato a conoscere, al mattino, da quale parte sorge il sole, e alla sera, dove tramonta. Si diventa senza più riferimenti.
Lontana da quei luoghi, non ho più saputo discernere l’alba e il tramonto, schiacciata tra il cemento e gli affanni.
Quando ho preso il treno, alle quattro del pomeriggio, in quella piccola stazione sulla direttrice Lecce-Milano, lasciavo alle spalle un paese che viveva arroccato sulla prima altura situata a pochi chilometri dal mare. Anche la breve distanza dalla stazione ferroviaria rappresentava un percorso difficile da superare poiché, anche se non sto parlando del medioevo, i mezzi di comunicazione e trasporto con i centri più vicini erano inesistenti.
Si viveva nel silenzio o meglio nel silenzio dei rumori familiari, quelli del fabbro, del falegname, anche quello della macchina da cucire di mia madre, delle campane e dei passi che risuonavano nelle strade.
Nei pomeriggi estivi, il paese dormicchiava e la calura conciliava le pennichelle dei suoi abitanti.
Eugenio suonava il “Vent’unora”, non ne conosco il significato ma allora era il tardo pomeriggio. In tempo di mietitura gli addetti a falciare il grano si fermavano per una merenda.
Poi Eugenio, che era il sacrestano suonava il “Vespro”, l’ “Ave Maria” e terminava la sua fatica chiudendo la porta della chiesa e avviandosi verso casa con un’andatura leggermente curva su un lato e un fare lento e pensieroso.
Suonava l’“alba”, la “missitella”, il “mezzogiorno”.
Le campane scandivano la vita di tutti gli abitanti.
Alla domenica poi, in occasione della “messa cantata” suonavano a distesa.
Mentre queste scampanellavano, le donne in casa erano affaccendate ai fornelli e dalle finestre uscivano profumi di carne sul fuoco, pranzi riservati solo alla domenica poiché durante la settimana, sui deschi imperava solo la pasta asciutta impastata in casa, condita con semplice pomodoro e magari con una spruzzatina di pecorino.
La monotonia del suono delle campane che scandivano il tempo nell’arco della giornata, veniva rotta solamente dal diverso scampanio che annunciava una morte o l’arrivo di nubi minacciose che promettevano vento e grandine magari proprio in prossimità del raccolto del grano coltivato a grande maggioranza.
Il suono che annunciava a tutti la dipartita di uno degli abitanti era greve e lento. Rintocchi tristi che venivano ripetuti più volte a distanza ravvicinata e il numero delle volte era determinato dall’importanza del personaggio.
A quel suono le donne si affacciavano sull’uscio ad interrogarsi.
La vecchia Zia Maria chiedeva a Carmela: “Chi è morto?” “Non so” facevo eco zia Serafina affacciandosi alla finestra.
La nonna si spingeva più in là e arrivava sino in cima alla “ruella” che sbucava sul corso principale. Al primo passante chiedeva e dopo parecchi “non so” che duravano al massimo un quarto d’ora, di rimbalzo arrivava il nome.
Allora, la donna di casa si pettinava i capelli raccolti a crocchia sulla sommità del capo, si metteva un fazzoletto in testa legato sotto il mento, possibilmente nero, e correva a portare il primo saluto della famiglia, ai parenti del morto i quali erano già pronti per ricevere quelle visite seduti attorno al defunto adagiato sul letto allestito per l’occasione con la massima cura.
Alla sera andavano gli uomini, mentre le donne si organizzavano per la veglia notturna.
Prima della guerra non esistevano “thermos”, ma poi arrivarono anche quelli e così il caffè veniva portato caldo per tutti poiché in quella casa, mentre c’era il morto presente non si sarebbe acceso fuoco alcuno per cibi e bevande calde.
Ogni familiare era rigorosamente seduto al posto che gli competeva a fianco del letto, secondo il suo grado di parentela.
La stanza funebre veniva liberata da tutti i mobili trasportabili e al loro posto venivano allineate sedie in gran quantità così che i visitatori trovassero posto a sedere in circolo attorno al letto funebre.
Per quasi due giorni, tutto il paese sfilava e si soffermava in questa stanza come a voler tenere compagnia al morto, per l’ultima volta.
Il motivo non era solo quello; ci si ritrovava un po’ tutti ed era l’occasione per conversare, anche se sommessamente.
Qualcuno si fermava più del necessario per raccogliere maggiori informazioni sugli ultimi avvenimenti degli altri o aspettando magari qualche persona che non vedeva da tempo. A bassa voce si scambiavano notizie sulle loro famiglie e sui fatti
 del paese e non di rado, si gettavano le basi per combinare matrimoni tra giovani che neppure si conoscevano, lasciando alla discrezionalità dei genitori valutare la convenienza sociale ed economica di favorire un simile approccio.
I componenti della famiglia del malcapitato, a turno, piangevano il morto a voce alta e con una specie di cantilena rievocavano la vita di costui esaltandone le qualità.
Nel caso il defunto in questione, in vita, fosse stato un po’ carognetta verso alcuni familiari, costoro coglievano l’occasione per intercalare le cantilene con frecciatine, più che dirette al morto, dirette alle persone in vita che avrebbero beneficiato dei torti da loro subiti e non raramente i chiamati in causa rispondevano con lo stesso indiretto sistema.
In questi casi l’eco si estendeva fuori dalla stanza, fuori dalla casa, così che i curiosi visitatori diventavano più numerosi per non perdersi le varie battute.
L’avvenimento di una morte si trasformava così in un’occasione per comunicare e conoscere le storie di attualità del paese. Era la televisione o il settimanale scandalistico dell’epoca, un bollettino che veniva ascoltato e riferito a chi non era presente.
Era cronaca rosa, cronaca gialla, argomenti sussurrati con autentico mistero, cronaca nera. Tutto il paese passava sotto i racconti delle croniste del tempo poiché le più informate erano sempre le donne.
La signora “bene” che non usciva mai da casa, mandava la serva a raccogliere informazioni e questa si documentava scrupolosamente per riferire ogni particolare che riteneva potesse interessare la sua “padrona”.
E queste erano poi le notizie sulle quali si sarebbero accentrati tutti i discorsi fino a nuovi avvenimenti.
Eugenio espletava tutte le incombenze relative ai funerali.
Suonava le campane a morto, preparava il catafalco, le sedie in chiesa e non dimenticava niente. Tutto veniva allestito secondo i desideri dei familiare e in proporzione alla retribuzione concordata.
Lui, Eugenio, suonava anche l’organo in verità un po’ sfiatato a causa del mantice ridotto in cattive condizioni e cantava i salmi con un biascicato latino che non era necessario fosse comprensibile; l’unico latino ‘conosciuto’ era infatti quello delle preghiere recitate dagli anziani del paese ascoltando le quali si poteva intendere quanto poco se ne masticasse.
Naturalmente c’era anche il parroco, ma Don Oreste poco si occupava di tali faccende.
Viveva ritirato nella sua casa dedicandosi al proprio arricchimento intellettuale che poteva coltivare anche grazie al fatto che egli possedeva una delle poche radio esistenti in paese che tra l’altro (si diceva che ascoltasse “Radio Londra”) gli permetteva di essere sempre aggiornato sugli ultimi bollettini di guerra.
L’ultimo atto della vita vissuta in quel paese era quello di essere accompagnato dal parroco e da tutti gli abitanti lungo il viale alberato che conduceva al cimitero.
Dal 1944 in poi nei discorso di tutti, gli avvenimenti venivano indicati come accaduti:

-          prima della guerra

-          dopo la guerra.
                                              Maria  Mastrocola  Dulbecco

 
 
 
 

mercoledì 27 agosto 2014

CLAUDIA CHIAVARINO


                  Il mio primo giorno di scuola all’Unitre

 

Incomincio con il raccontare il mio arrivo in classe.

Ero un po’ in ritardo, ed ho esordito dicendo, scusate e mi ripeto, per il ritardo.

C’è stata una risposta unanime molto spiritosa, io di rimando ho fatto altrettanto e così si è rotto il cosiddetto ghiaccio. Ho notato molto affiatamento fra gli allievi e questo mi ha fatta sentire subito a mio agio, incominciando soprattutto dalla docente.

Il pomeriggio si è svolto fra letture di racconti e poesie. A quel punto mi son detta chissà se avrò anch’io la vena poetica, forse tastandomi il polso per trovare la vena del cuore.                                                      Ho incominciato a fantasticare a pensare ad una sera stellata a guardare il cielo e vedere quella miriade di puntini luminosi e dire come fanno a stare tutti lassù senza un filo che li trattenga, che meraviglia questo spettacolare ed infinito universo ed ho voluto immaginare che mio marito sia finito su uno di questi corpi celesti e sia felice.

Scusate questa nota un po’ triste. Sono convinta che alla regia di tutto ciò, ci sia una mano “Divina”.

Spero con il tempo di scrivere meglio, perché a dire la verità mi trovo meglio nel dialogare e per sfruttare una frase detta da un certo Papa... “se sbaglio mi corigirete” non che io mi paragoni a Lui sarebbe veramente sacrilego. Ho voluto mettere un qualche cosa di spiritoso, credo adatto per il contesto in cui mi sono trovata. La vita per quante avversità possa avere, vale sempre la pena di essere vissuta. Vorrei che questo mondo martoriato dalle guerre trovasse un po’ di pace e che tutti avessero il necessario per vivere e potessero pensare ad un futuro migliore, dove finalmente il male viene sconfitto e si ritornasse ad una dimensione umana, ripristinando tanti valori che purtroppo si sono persi, incominciando dalla famiglia.

Per finire, oggi mentre scrivo c’è il sole, dico questo perché sono un po’ metereopatica, quindi mi sento positiva. La pioggia mi rende malinconica, ma c’è un momento che mi rilassa vale a dire quando sono nel letto sotto le coperte al caldo ed il ticchettio delle gocce che cadono mi sembrano una dolce musica.

 

                                                                                         Chiavarino Claudia Emilia

 

martedì 26 agosto 2014

Maria


Perché non sono un delfino ?

 

Gli anni, i mesi, i giorni trascorrono veloci.

Dalla mia finestra guardo le cime già imbiancate, preludio dell’ineluttabile incombere dell’inverno…..

Odio l’inverno e le sue giornate rese più corte e buie dall’ anticipato tramonto del sole. Quel sole che io adoro, che rallegra le mie giornate, risvegliando la mia voglia di vivere, tonificando il corpo e la mente ringiovanendomi e dimentica per un breve periodo delle sofferenze passate.

Ogni anno, il mese di novembre mi rende più cupa; il giungere dei mesi seguenti mi intristisce trasformando il mio essere più debole e fragile, così che chiunque potrebbe ferirmi anche con una parola. Ma credo di riuscire a celare bene questo mio stato a chi mi circonda, tranne alla mia adorata figlia.

E sogno l’ estate …. Coi suoi colori sgargianti, le aiuole fiorite, i prati verdi cui d’inverno non tollero il loro triste inaridirsi.

E il mare… quel mare che mi piace anche d’inverno… quando è in burrasca con le sue alte ondate che s’infrangono rumorosamente sugli scogli; e d’estate per immergermi nelle sue acque cristalline, lasciandomi cullare lentamente desiderando che quell’ idillio non finisca mai.

A volte penso ai fondali marini che purtroppo non posso perlustrare in quanto non ho fatto corsi da sub e ora è troppo tardi.

Quanto mi piacerebbe essere un delfino… solcare le onde facendo capriole e andare su e giù saltando in uno scintillio di colori argentei..…..

Perché sono nata umana !?

 

                                                Alba Piccione Ferrero

giovedì 21 agosto 2014

Aurora D'Ibisco



AURORA D’IBISCO

Vien voglia di star sotto il tuo ombrello,
delicato, ma ahimè effimero.
Chissà il giorno, che è la tua vita,
dura eterno, ed è bandita la speranza.
Se è così è certezza dell'amore,
è palpito di vera vita rifulsa di gioia
e l'ombra invece è luce.
Un'aurora basta al tuo nascere


Gaetano

sabato 16 agosto 2014

NUOVA TECNOLOGIA


Con il passare degli anni mi rammaricavo di essere nata troppo presto e quindi non poter accedere alle nuove tecnologie in modo specifico ai computer.

Ad un certo punto mi è stato regalato un computer ed ho provato la soddisfazione di poter scrivere senza dovermi servire della macchina da scrivere(la mia amata e sempre conservata  Olivetti 62.) Il piacere delle cancellature automatiche. Conservare quello che scrivevo senza adoperare i fogli ( Ho però adoperato molto la stampante perchè all’inizio non potevo rinunciare ai fogli scritti). Etutto mi apparve bellissimo.

Cominciai a pensare a internet ma questo mi sembrò irraggiungibile , non alla mia portata. Ne sentivo magnificare le funzioni, le ricerche che si potevano fare : Un pensierino lo facevo ma non mi ritenevo capace di adoperarlo fino a che …con il regalo di un nuovo computer più aggiornato mi istallarono anche INTERNET.  Non conosco ancora adesso i termini esatti delle sue funzioni ma mi arrangio: Quello che mi serve lo trovo.

Comincio così a vedere  o meglio a sentire parlare di SITI di BLOG: Non ne capisco niente ma provo: Sempre con molta cautela nel timore di mandare in tilt il mio prezioso computer: Prova e riprova , non so come ora mi ritrovo tre BLOG uno per pubblicare tutto quello che scriviamo nel mio corso “laboratorio di scrittura” e altri due per scrivere tutto quello che mi passa per la mente:

Ho gia persino diversi amici e le loro foto appaiono nel mio profilo . Qualcuno mi ha anche inviato un messaggio e sono anche riuscita a rispondere: Certamente ho fatto dei casini perchè all’inizio non riuscivo a trovare dove dovevo scrivere e la prima volta che ho trovato scritto il mio nome e l’invito a scriver un messaggio, ho pensato che era quello il posto dove dovevo scrivere e così ho cominciato a farlo fino a quando il signore, padrone di quel blog, mi ha comunicato che stavo sporcando il suo salotto . Gli chiedo scusa ma io stavo solo provando e vorrei che quelli così bravi non si arrabbiassero con quelli che come me, ci stanno provando.

Quello che provo ogni volta che non riesco a capire cosa devo fare, è indescrivibile. I contatti che ricevo ai quali non so rispondere. E’ un casino ma è divertente provarci. Vi sono anche persone gentili che provano a farmi capire ma non so fino a che punto riesco a recepire.  Non conosco i termini appropriati per indicare le cose:  Volevo un disegno particolare per uno dei miei blog e mi sembrava di esseci riuscita ma poi mi sono vista apparire nuovamente la penna che era nel primo e che forse attribuiscono a tutti quelli come me che sono imbranati.  In ogni caso ringrazio questi invisibili folletti che ci aiutano :

Appena capirò di più annoterò la cosa. Per ora ho bisogno di aiuto e comprensione: Non so niente…mi piacciono i blog dtei miei amici ma non so comre fanno a renderli coì belli e interessanti, io a mala pena so scriverci e copiare gli scritti del mio laboratorio. Saluto tutti quelli che hanno la pazienza di leggermi e…spiegarmi qualcosa in particolare 1sorriso….

Pubblicato il 6 febbraio 2009 da maria34

Oggi mi sono trovata con tutti i signori e signore che intervengono al mio ” Laboratorio di scrittura “.

Le due ore sono passate in un baleno, conversando piacevolmente di : poesia , ricordi e tutti hanno letto qualcosa scritto per l’occasione . Ogni racconto è stato piacevolmente commentato suscitando emozioni che altrimenti non avremmo provato:  Sono tutte persone speciali e sono veramente soddisfatta di aver dato vita a questi incontri.

Devo pur cominciare a raccontare qualcosa su questo blog…fino a che non supero la diffidenza non sarò sciolta come quando scrivo sulla carta. Devo convincermi di avere un quaderno dove scrivo solo per me stessa…

 

domenica 3 agosto 2014

Sono tornata!!!
Non sono ancora in grado di collegarmi ai mie blog e poterci scrivere ma in questo credo di esserci riuscita:
PREGHIERA
La mia preghiera
è fatta
di parole mute
di candele accese
di sguardi imploranti.
Le mie mani vuote
le mie labbra chiuse
la mia nullità
è tutta racchiusa
nel desiderio
di una serenità
che non mi appartiene
ma che desidero
con tutto il mio esistere.
Aspetto inerte
passiva e consapevole
che è qualcosa
di inafferrabile
così come lo è
la certezza.
Maria Dulbecco