lunedì 25 marzo 2013

A U G U R I



lunedì 25 marzo 2013





         Chissà perché quest'anno  comincio a pensare al compleanno di Claudia, mia figlia, una settimana prima.
       In effetti la data é il primo Aprile, non é certo una data che si può dimenticare.
       Una data speciale come lo é lei. Sensibile, attenta agli altri,  una insicurezza nascosta dietro una ostentata sicurezza che le conferisce una calma che non è la sua.
        Ribelle al punto giusto, non ha mai accettato suggerimenti salvo poi a fare ciò che le é stato detto dopo aver preso da sola quella decisione forse non ricordando neppure che le era stata suggerita.
        Se legge queste righe si arrabbierà e me le contesterà ma se così non facesse non sarebbe lei.
        Da piccola una volta dopo un suo capriccio, non ne faceva molti, si è arrabbiata e ha gridato: Vado via! al che suo papà le ha aperto la porta sulle scale e lei è corsa fuori, si è fermata dietro la porta chiusa  prima di scendere i gradini e quando, poco dopo, il papà ha aperto, lei era ferma sul pianerottolo  facendo l'altezzosa ma poi é corsa tra le nostre braccia nascondendo la paura che aveva provato al chiudersi della porta.
        Pensava al benessere nostro, come fa ora con me. Mentre facevamo dei viaggi lunghi , quando le macchine non avevano aria condizionata, lei sempre in braccio, metteva le manine fuori dai riflettori e accarezzandomi mi diceva: E' per regalarti un pò di fresco.
       Elencare i ricordi  non si esaurirebbero così presto ma é stata ed è la nostra bellissima bambina, unico sorriso della vita  ma purtroppo non abbiamo potuto proteggerla molto dai dispiaceri del mondo e anche a nome di  suo papà che non c'é più le diciamo grazie e vogliamo sia certa di tutto il bene che le abbiamo voluto e io continuo con l'augurio che la sua vita prosegua con qualche soddisfazione e la realizzazzione di quanto desidera.
       Deve solo sempre credere in se stessa e...volersi bene!!!


mercoledì 20 marzo 2013

L'ALBERO DELLA VITA


L’ALBERO DELLA VITA

L'albero della vita
Tempo, mio tempo senza ritorno,
lume dei desideri...
s'imbeve in teorie d'amore.
Niente somiglia a ciò che abbiamo amato,
vola, vola altissimo
il nostro canto di speranza
per la nuova stagione che farà,
rifioriranno sì spine, ma ci porteranno
anche fiori e frutti in abbondanza,
per scendere nei giorni futuri.
Davanti a noi ci sarà sempre l'albero della vita
Adriana Mondo.


mercoledì 13 marzo 2013

         OLMI   ABBATTUTI  LA  SCORSA  PRIMAVERA

Oggi, guardando con Rinaldo dalla mia finestra, gli ho fatto vedere un prato  dove svettavano sei olmi che in altezza superavano le case di fronte. Ora non ci sono più!
Insieme, abbiamo visto le foto scattate mentre li abbattevano ed é nata questa poesia:




Alberi assenti

Linfa negata nel mistero delle radici,
stroncata dalla mano dell’uomo.

È nel pensiero che si accende il ricordo,
nel frusciare assente del loro esistere,
complessa ramificazione dei giorni,
calati nel segreto delle stagioni.
E’ un pianto la  loro assenza.

Li vedo svettare al cielo, come i miei vent’anni,
nelle ore del silenzio meridiano,
tra il cinguettio dei loro ospiti e lo
stormire di fronde,
quando il pensiero si fa greve.

Poi il ricordo si attenua riproponendo
la nuda strada, ormai priva di vita.

            rinaldo ambrosia














  Come erano!!!

martedì 12 marzo 2013

NONNA CATERINA
Non ti ho mai dimenticata.
Eravamo sedute su quel balcone nelle lunghe sere d’estate io e te, nonna.
Tu pregavi. Io sognavo.
Tu pregavi. Io guardavo le stelle.
Quelle stelle, complice il buio, erano nitide e lucenti.
Qualche volta smettevi di pregare e parlavi con me. Mi raccontavi episodi della tua vita quando mi sentivi predisposta ad ascoltarti. Ricordavi cosa avevano raccontato a te da bambina e osservando la luna piena, una sera mi hai fatto notare come in quel disco luminoso si vedesse nitidamente la figura di un uomo che cercava di oscurarla. Mi dicevi “Vedi? È Bertoldo. Con un fascio di sterponi cercava di oscurare la luna e nel tentativo di coprirla, perché gli altri non lo vedessero mentre rubava i covoni di grano, vi rimase attaccato e fu condannato a restarci per l’eternità”.
Io vedevo chiaramente la figura da te indicata e pensavo a quel povero Bertoldo che sicuramente non si trovava a proprio agio in quella scomoda posizione.
Sono poi andati sulla luna, nonna, quando tu non eri più con noi. Quelle ombre non erano di Bertoldo, ma delle montagne ed io non ho potuto dirtelo. Non volevo crederci, ma dimostrarono che era così. In verità lo sapevamo anche prima, ma io preferivo credere a te.
Hanno cominciato così a distruggere i miei sogni.
Tu pregavi. Io fantasticavo.
No, non ricordo amore.
Già da piccola avvertivo che in quel paese non c’era calore, sapevo che sarei dovuta andare via.
Le strade erano di fango e le case non avevano acqua corrente.
Il banditore, a pagamento, annunciava dove andare a comprare i piselli freschi e se in piazza era arrivato il pesce o la frutta di stagione a buon prezzo. Si faceva precedere da due squilli e poi con quanto fiato aveva in gola reclamizzava la merce e il luogo.
I carretti tirati da asini e cavalli, partivano al mattino presto per i campi e tornavano alla sera in fila superando la salita della “curva” oppure quella più ripida della “fonte”.
Fatti importanti ne accadevano pochi, qualche nascita, un matrimonio, le due feste patronali del paese quando arrivavano persino i gelati.
Non dimentico due fatti importanti. Due omicidi a distanza di qualche anno uno dall’altro. La mia piccola mente non poteva concepire come un fratello potesse togliere la vita ad un altro. Non lo capivo. Non c’era amore.
Eppure le persone si sposavano e i bambini nascevano come in ogni altro posto.
Non c’era calore in quel paese, non c’era tenerezza, le carezze erano gesti ai quali gli abitanti non erano avvezzi. Gesti di cui ci si vergognava.
Il fango, il fango abbondava nell’inverno.
L’acqua sporca si buttava dalla finestra, un po’ sparsa perché si asciugasse in fretta. Quando era più abbondante la si portava con una tinozza fino al lato della strada dove veniva rovesciata in una cunetta scavata alla meglio, nella quale scorreva un rigagnolo che provvedeva a convogliare queste acque tutte nella medesima direzione, la “Forma”, un canale artificiale che si trovava a destra del paese.
Non c’era grande povertà e neppure grande ricchezza.
Il fango, tanto fango specialmente se pioveva e poi tantissimo quando subito dopo la guerra si fecero gli scavi per le fognature e per portare l’acqua nelle case.

In quel periodo era possibile camminare per le strade, soltanto grazie alla buona volontà di molti che, spinti dalla necessità, avevano provveduto a posare uno dopo l’altro, dei grossi sassi lungo i percorsi abituali.
Non c’era amore. Poi arrivarono le suore, delle piccole umili suore che si adattarono ai nostri usi e ci insegnarono che c’era l’amore di Gesù.
Accolsi nel mio cuore questo sentimento grande, ma anche questo lo tenni celato come ogni altro sentimento senza mai tradire emozioni che sarebbero sembrate strane.
Contegno, freddezza, rudezza.
Questo è il paese dove sono cresciuta e dove ritorno saltuariamente trovandolo sempre diverso ricordando che: io ero qui quando questa terra era ostile e regalava solo poesia, troppo poco per vivere e troppo per una pace senza risorse.
Ora tutto è in fermento, tutto in costruzione. I volti noti non ci sono più o ne vedi pochi, gli altri, i nuovi arrivati, sono tanti e li vedi padroni di quei tuoi sogni defraudati a te dalla vita che lenta, inesorabile, ti fa guardare avanti ma non ti permette di dimenticare.
Amavo il mare, il suo fragore lontano nelle giornate di burrasca.
Alla sera uscivo sull’uscio di casa e nel buio della notte mi lasciavo rapire da quel rumoreggiare lontano e affascinante che proveniva da quell’enorme massa d’acqua in movimento.
L’Adriatico doveva agitarsi moltissimo se a tre chilometri di distanza ne percepivo un suono così distinto.
In quelle notti il cielo era limpido e il mare si sostituiva alle stelle per regalarmi sensazioni stupende.
La battaglia della vita è ora come quel mare in burrasca.
Il mio mare è lontano, il suo rumore non giunge fino al mio udito.
Quella casa in mezzo agli ulivi non esiste più, le nuove costruzioni l’hanno soffocata; i dintorni hanno subito una trasformazione tale da rendere irriconoscibili quei luoghi ormai vivi solo nella memoria di chi li ha vissuti.
Era un casa dove si era sempre in attesa di qualcuno che doveva arrivare.
Prima la nonna che aspettava suo figlio che viveva al nord, poi mia madre che aspettava noi e di questo aspettare c’era tutta la speranza e il desiderio del ritrovarsi che aiutava a vivere.
Vivere. La vita cos’è.
La bontà cos’è.
La cattiveria cos’è. Cos’è la lontananza.
Spesso mi sono sentita come un’emigrante in patria. Si è sempre emigranti quando si va via, giovanissimi, da dove abbiamo imparato a conoscere, al mattino, da quale parte sorge il sole, e alla sera, dove tramonta. Si diventa senza più riferimenti.
Lontana da quei luoghi, non ho più saputo discernere l’alba e il tramonto, schiacciata tra il cemento e gli affanni.
Quando ho preso il treno, alle quattro del pomeriggio, in quella piccola stazione sulla direttrice Lecce-Milano, lasciavo alle spalle un paese che viveva arroccato sulla prima altura situata a pochi chilometri dal mare. Anche la breve distanza dalla stazione ferroviaria rappresentava un percorso difficile da superare poiché, anche se non sto parlando del medioevo, i mezzi di comunicazione e trasporto con i centri più vicini erano inesistenti.
Si viveva nel silenzio o meglio nel silenzio dei rumori familiari, quelli del fabbro, del falegname, anche quello della macchina da cucire di mia madre, delle campane e dei passi che risuonavano nelle strade.
Nei pomeriggi estivi, il paese dormicchiava e la calura conciliava le pennichelle dei suoi abitanti.

Eugenio suonava il “Vent’unora”, non ne conosco il significato ma allora era il tardo pomeriggio. In tempo di mietitura gli addetti a falciare il grano si fermavano per una merenda.
Poi Eugenio, che era il sacrestano suonava il “Vespro”, l’ “Ave Maria” e terminava la sua fatica chiudendo la porta della chiesa e avviandosi verso casa con un’andatura leggermente curva su un lato e un fare lento e pensieroso.
Suonava poi l’ “alba”, la “missitella”, il “mezzogiorno”.
Le campane scandivano la vita di tutti gli abitanti.
Alla domenica poi, in occasione della “messa cantata” suonavano a distesa.
Mentre queste scampanellavano, le donne in casa erano affaccendate ai fornelli e dalle finestre uscivano profumi di carne sul fuoco, pranzi riservati solo alla domenica poiché durante la settimana, sui deschi imperava solo la pasta asciutta impastata in casa, condita con semplice pomodoro e magari con una spruzzatina di pecorino.
La monotonia del suono delle campane che scandivano il tempo nell’arco della giornata, veniva rotta solamente dal diverso scampanio che annunciava una morte o l’arrivo di nubi minacciose che promettevano vento e grandine magari proprio in prossimità del raccolto del grano coltivato a grande maggioranza.
Il suono che annunciava a tutti la dipartita di uno degli abitanti era greve e lento. Rintocchi tristi che venivano ripetuti più volte a distanza ravvicinata e il numero delle volte era determinato dall’importanza del personaggio.
A quel suono le donne si affacciavano sull’uscio ad interrogarsi.
La vecchia Zia Maria chiedeva a Carmela: “Chi è morto?” “Non so” facevo eco zia Serafina affacciandosi alla finestra.
La nonna si spingeva più in là e arrivava sino in cima alla “ruella” che sbucava sul corso principale. Al primo passante chiedeva e dopo parecchi “non so” che duravano al massimo un quarto d’ora, di rimbalzo arrivava il nome.
Allora, la donna di casa si pettinava i capelli raccolti a crocchia sulla sommità del capo, si metteva un fazzoletto in testa legato sotto il mento, possibilmente nero, e correva a portare il primo saluto della famiglia, ai parenti del morto i quali erano già pronti per ricevere quelle visite seduti attorno al defunto adagiato sul letto allestito per l’occasione con la massima cura.
Alla sera andavano gli uomini, mentre le donne si organizzavano per la veglia notturna.
Prima della guerra non esistevano “thermos”, ma poi arrivarono anche quelli e così il caffè veniva portato caldo per tutti poiché in quella casa, mentre c’era il morto presente non si sarebbe acceso fuoco alcuno per cibi e bevande calde.
Ogni familiare era rigorosamente seduto al posto che gli competeva a fianco del letto, secondo il suo grado di parentela.
La stanza funebre veniva liberata da tutti i mobili trasportabili e al loro posto venivano allineate sedie in gran quantità così che i visitatori trovassero posto a sedere in circolo attorno al letto funebre.
Per quasi due giorni, tutto il paese sfilava e si soffermava in questa stanza come a voler tenere compagnia al morto, per l’ultima volta.
Il motivo non era solo quello; ci si ritrovava un po’ tutti ed era l’occasione per conversare, anche se sommessamente.
Qualcuno si fermava più del necessario per raccogliere maggiori informazioni sugli ultimi avvenimenti degli altri o aspettando magari qualche persona che non vedeva da tempo. A bassa voce si scambiavano notizie sulle loro famiglie e sui fatto dei paese e non di rado, si gettavano le basi per combinare matrimoni tra giovani che neppure si conoscevano, lasciando alla discrezionalità dei genitori valutare la convenienza sociale ed economica di favorire un simile approccio.

I componenti della famiglia del malcapitato, a turno, piangevano il morto a voce alta e con una specie di cantilena rievocavano la vita di costui esaltandone le qualità.
Nel caso il defunto in questione, in vita, fosse stato un po’ carognetta verso alcuni familiari, costoro coglievano l’occasione per intercalare le cantilene con frecciatine, più che dirette al morto, dirette alle persone in vita che avrebbero beneficiato dei torti da loro subiti e non raramente i chiamati in causa rispondevano con lo stesso indiretto sistema.
In questi casi l’eco si estendeva fuori dalla stanza, fuori dalla casa, così che i curiosi visitatori diventavano più numerosi per non perdersi le varie battute.
L’avvenimento di una morte si trasformava così in un’occasione per comunicare e conoscere le storie di attualità del paese. Era la televisione o il settimanale scandalistico dell’epoca, un bollettino che veniva ascoltato e riferito a chi non era presente.
Era cronaca rosa, cronaca gialla, argomenti sussurrati con autentico mistero, cronaca nera. Tutto il paese passava sotto i racconti delle croniste del tempo poiché le più informate erano sempre le donne.
La signora “bene” che non usciva mai da casa, mandava la serva a raccogliere informazioni e questa si documentava scrupolosamente per riferire ogni particolare che riteneva potesse interessare la sua “padrona”.
E queste erano poi le notizie sulle quali si sarebbero accentrati tutti i discorsi fino a nuovi avvenimenti.
Eugenio espletava tutte le incombenze relative ai funerali.
Suonava le campane a morto, preparava il catafalco, le sedie in chiesa e non dimenticava niente. Tutto veniva allestito secondo i desideri dei familiare e in proporzione alla retribuzione concordata.
Lui, Eugenio, suonava anche l’organo in verità un po’ sfiatato a causa del mantice ridotto in cattive condizioni e cantava i salmi con un biascicato latino che non era necessario fosse comprensibile; l’unico latino ‘conosciuto’ era infatti quello delle preghiere recitate dagli anziani del paese ascoltando le quali si poteva intendere quanto poco se ne masticasse.
Naturalmente c’era anche il parroco, ma Don Oreste poco si occupava di tali faccende.
Viveva ritirato nella sua casa dedicandosi al proprio arricchimento intellettuale che poteva coltivare anche grazie al fatto che egli possedeva una delle poche radio esistenti in paese che tra l’altro (si diceva che ascoltasse “Radio Londra”) gli permetteva di essere sempre aggiornato sugli ultimi bollettini di guerra.
L’ultimo atto della vita vissuta in quel paese era quello di essere accompagnato dal parroco e da tutti gli abitanti lungo il viale alberato che conduceva al cimitero.
Dal 1944 in poi nei discorso di tutti, gli avvenimenti venivano indicati come accaduti:
- prima della guerra
- dopo la guerra.

Maria Dulbecco
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lunedì 11 marzo 2013

Nonna  Caterina
Io so di aver avuto una nonna speciale.
             Era nata il 21/7/1886 quindi all'alba del novecento aveva già 14 anni e mi affascinava sentir raccontare come si svolgeva la sua vita in quel particolare momento. Mi raccontava      della sua zia "monaca" che provvedeva alla sua educaziona, ai vestiti che faceva arrivare da Napoli (si era ancora alla dominazione borbonica) alle abitudini del tempo e tante altre storie molto interessanti.
Del suo fidanzamento con nonno Cesare.
.  A quanto ricordo nonna Caterina mi ha raccontava che il loro matrimonio avvenne per uno sparo. Precisamente, come usava a quei tempi, la richiesta era stata fatta ai genitori e ai fratelli che non vedevano di buon occhio che dovesse trasferirsi in un altro paese e così l'innamorato respinto escogitò un sistema per non farsi dire: no.
     Nonna Caterina sostava spesso ,  forse a ricamare, vicino alla finestra che dava verso il Sinello, sicuramente si affacciava ad essa per ammirare il panorama e a fantasticare. Una sera mentre all'imbrunire era in questa piacevole posizione, il giovane Cesare passò sotto quella finestra e con il suo fucile da cacciatore sparò verso o a fianco di quella finestra così da compromettere la fanciulla come a segnare un possesso: questa ragazza deve essere mia. Tutto il paese , in breve, fu al corrente della cosa e quindi  compromessa. Inevitabile da parte della famiglia accettare il fidanzamento in casa e permettere che questa adorata sorella cambiasse paese.
        Cominciarono i preparativi e naturalmente fecero la conoscenza con la famiglia di lui. Avvenne così che i matrimoni diventarono due poichè Nicola uno dei fratelli di nonna si innamorò di Domenica , sorella di Cesare, e così si fidanzarono anche loro.
                                                                                    Maria Dulbecco
    


domenica 10 marzo 2013

La casa tra gli ulivi

Nostalgia, nostalgia della casa dove sono cresciuta:
Quella casa in mezzo agli ulivi non esiste più, le nuove costruzioni l’hanno soffocata; i dintorni hanno subito una trasformazione tale da rendere irriconoscibili quei luoghi ormai vivi solo nella memoria di chi li ha vissuti.
Era un casa dove si era sempre in attesa di qualcuno che doveva arrivare.
Prima la nonna che aspettava suo figlio che viveva al nord, poi mia madre che aspettava noi e di questo aspettare c’era tutta la speranza e il desiderio del ritrovarsi che aiutava a vivere.
Vivere. La vita cos’è.
La bontà cos’è.

Coòori invernali ma belli!

Coòori invernali ma belli!


La cattiveria cos’è. Cos’è la lontananza.
Spesso mi sono sentita come un’emigrante in patria. Si è sempre emigranti quando si va via, giovanissimi, da dove abbiamo imparato a conoscere, al mattino, da quale parte sorge il sole, e alla sera, dove tramonta. Si diventa senza più riferimenti.
Lontana da quei luoghi, non ho più saputo discernere l’alba e il tramonto, schiacciata tra il cemento e gli affanni.

Maria Dulbecco

domenica 3 marzo 2013

POST PUBBLICATO SUL MIO BLOG
          mar123ia45iobloggo.com

Dal "Laboratorio di scrittura"
[mod]  [del]
 BUONA DOMENICA
Cari amici, mi rivolgo ai pochi che commentano o mi inviano i loro saluti e a quelli che passano e non mi lascia un segno.
Io cerco di riavvicinare i tanti amici che non ho mai dimenticato e che riempivano le mie giornate con cenni di stima e affetto pienamente ricambiati.ù
Vedo che mi trovano di più su  maria234 ed è per questo che lo tengo aperto e poi su Blogspot dove ho questo blog, riesco a postare foto.ù
Ho terminato il giornalino di Gennaio e non sono riuscita a pubblicarlo quì, chiederò ad Anna se mi fa questo favore, E'presente su FacebooK e su Twitter.
Prossimamente pubblicerò i miei pensieri ma oggi vi presento uno dei miei.
 Anche se é Pasqua, vi faccio leggere una letterina a Babbo Natale scritto da Vasco Giuseppe:


 
Lettera a Babbo Natale
 
                                   Caro Babbo Natale,
            scusami se ti scrivo in ritardo, tu sei già passato da diversi giorni, io ti ho aspettato invano, ma da me non sei mai arrivato. Lo so che in questi ultimi anni hai sempre più da fare e non ti avevo scritto la letterina ma pensavo che quelle scritte negli anni precedenti fossero ancora valide. E’ proprio vero il detto: ”Passata la festa…” e non scrivo il seguito perché anche tu lo sai. Avevo preparato il panettone morbido morbido perché non ti facessi male scendendo o se ne volevi una fetta, tanto per gradire. Almeno speravo tanto di vederti transitare su nel cielo con la tua slitta trainata dalle renne e carica di regali, forse mi ero addormentato nell’attesa e quando sei arrivato da me li avevi già finiti, come negli anni precedenti. Per favore, l’anno prossimo ti prometto che ti scriverò presto la letterina così potrai aggiungere il mio nome nel tuo lungo elenco. Me ne basta uno solo, piccolo piccolo, di nessun valore, l’importante che passi a trovarmi. Ma non ridere sotto la tua gran barba bianca, lo so che ormai sono vecchio per credere a queste cose ma sai, quando si è vecchi si ritorna bambini e si ricomincia a sognare. Però ti capisco, hai fatto felici tanti bambini che altrimenti non avrebbero avuto nulla, i figli dei disoccupati, dei cassintegrati, degli extracomunitari, dei lavoratori che hanno lasciato le loro famiglie per illudersi di trovare lavoro qui in Italia e che altrimenti non avrebbero avuto nulla con cui divertirsi o sfamarsi.
            Caro Babbo Natale, ora ci ho ripensato e cambiato idea, il prossimo Natale non riceverai la mia letterina, carica come sempre la tua slitta più che puoi e vai a far felice tanti altri bambini ma, quando passi nel cielo, ricordati di lasciar cadere su noi vecchietti l’augurio di tanta salute e serenità, è la cosa più bella che noi desideriamo avere per stare ancora vicini ai nostri cari e, perché no, anche per far dispetto all’INPS.
 
 
                                                                               Giuseppe Vasco     gennaio 2013
 
 
Un affettuoso abbraccio   Maria
postato da: maria34 alle ore 11:25 | Permalink | nessun commento
categoria:varie

     L'ultima neve ripresa dal mio balcone!!!