giovedì 29 marzo 2012

Primavera è

 Quando gli amici son vicini a me,
primavera è ….

                              Quando sento fischiettare

e il cuor comincia a palpitare,
primavera è ….
Quando nostalgia ho di amare
e tanta voglia di cantare,
primavera è ….
Quando mi guardo attorno
e sorrido al nuovo giorno,
primavera è ….
Infine quando tutto tace
e mi sento serenamente in pace,
primavera è ….

                                                                            ( Gina Vendramin

I gesti abituali di ogni giorno, spesso ci riportano alla mente persone conosciute nel passato dao quali abbiamo imparato quei gesti.

Quando in chiesa prego solo con le labbra e non con la voce mi sovviene sempre la mia amica Maria. Amica inseparabile. fino a che sono rimasta al mio paese. tanto che gli abitanti  ci chiamavano le due Marie. Dicevo che il mio pregare in silenzio , spesso faceva dire a Maria: Se tutti pregassero come te, in chiesa non si udrebbe voce alcuna, come se a pregare fossero una folla di persone mute! 

Così ogni qualvolta mi capita di pregare in tal modo, non posso fare a meno di pensare allamia amica di allora che oggi vive a Roma e chi ci sentiamo sporadicamente.
   

domenica 18 marzo 2012

Scrivere

Un invito a scrivere per gli amici del mio "Laboratorio di scrittura" e per tutti:
.Scrivere è liberare i nostri pensieri.
Trasmetterli su un foglio bianco pronto ad accoglierli e gratificarci di vederli stampati per poterli ricordare quando lo desideriamo.
E’ vivere sulla carta la vita che avremmo voluto e non abbiamo avuto la possibilità di poterla vivere.
La vita non ci dà una prova d’appello e così la nostra fantasia può spaziare ed immaginare le situazioni più incredibili......sognare come ci capitava da ragazzine quando pensavamo al nostro futuro.
Quando la fantasia ci trasformava in principi e principesse e le emozioni ci assalivano diventando padroni del nostro cuore.
Coraggio, liberate la vostra fantasia e scrivete tutto ciò che vi ispira senza pensare di essere giudicati perchè non è lo scopo del corso.               
.Scrivere è liberare i nostri pensieri.
Trasmetterli su un foglio bianco pronto ad accoglierli e gratificarci di vederli stampati per poterli ricordare quando lo desideriamo.
E’ vivere sulla carta la vita che avremmo voluto e non abbiamo avuto la possibilità di poterla vivere.

La vita non ci dà una prova d’appello e così la nostra fantasia può spaziare ed immaginare le situazioni più incredibili......sognare come ci capitava da ragazzine quando pensavamo al nostro futuro.


Maria Mastrocola Dulbecco







martedì 13 marzo 2012

FLASH MUSICALE

FLASH  MUSICALE


La canzone scorre piacevolmente, ma con l'andar delle parole, un retrogusto 'dolceamaro', come certi ricordi, mi raggiunge e mi sovrasta.

       "Ciao, ciao, bambina, un bacio ancora, ... ...
        ... vorrei trovare parole nuove, ma piove piove ..."

L'avevamo scelta come la "nostra canzone", anche se il tema non era proprio attinente.
Erano le prime ore, del primo giorno del 1958.
Una grande trasgressione essere fuori ancora a quell'ora.
Ma era un momento speciale, l'eventuale prezzo da pagare poi a casa, sarebbe stato risibile al confronto della gioia che stavamo vivendo in quel momento, e che nessuno ormai avrebbe più potuto portarci via.
Ricordo il primo bacio, un giardino pubblico, una panchina accanto ad un'edicola, ancora chiusa.
Passò un furgoncino per la consegna dei quotidiani del mattino,  buttò a terra alcuni pacchi di giornali arrotolati, e noi per gioco, a cercare di leggere i titoli della prima pagina, per vedere se  "il nostro amore era già di dominio pubblico".

Chissà se anche lei in questo momento sta vedendo e sentendo.
L'ascolto di questa trasmissione è solitamente altissimo.
Chissà se ricorda, cosa ricorda; chissà se anche lei in questo momento ricorda questo ricordo.
Che ricordo!
Chissà dov'è, con chi è. Sarà una bella signora, così come allora era una bella ragazzina.
Provo un leggerissimo brivido di piacere, come avvolto da una tiepida brezza di mare.
Ho  la sensazione d'averla seduta qui, accanto a me.
Mi lascio andare al piacere di pensare che, a chissà quanti chilometri di distanza, o perchè no magari nella stessa città, stiamo facendo la stessa cosa:  la 'rivisitazione' di una meravigliosa  emozione.
Vivere la stessa emozione nello stesso momento: quasi una complicità.

 E la canzone va,

           " ...   è pioggia o pianto, io  non lo so, ...
                             ....  c'era una volta, poi non c'è più ... ..."


                             stefano franco sardi

venerdì 9 marzo 2012

Amoro di cristallo

Amori di cristallo.
Quanti amori passeggeri,
veloci e delicati,
accompagnano con il loro ricordo
le giornate ormai sfiorite…
Volare nell’aria,
sospinta dal giostraio,
che ti faceva quasi toccare il cielo
e girare il mondo
con i suoi ricordi ricchi di fantasia.
Sentire una voce cantare,
emozionata ed incerta
e sapere che la canzone è dedicata a te.
Quanti amori,
limpidi, trasparenti e fragili,
Amori di cristallo.

giovedì 8 marzo 2012

8 Marzo


8 marzo.

Oggi amore i fiori profumati
della mimòsa sono in fiore
                     il tuo fiore “ auguri ”.  
amore ieri hai visto
i nudi olmi nel parco
mettono già
qualche rametto
sentono giungere
i tiepidi meriggi marzolini
tu sei una gemma
di quei rametti
nel mio cuore.

renato finotti.

L’alba dei tuoi passi
(Dedicato alle donne)
A te scorrono le stagioni,
cammini lieve,
con passi accennati.
Tu linfa di vita,
sei madre, sorella, amica.
Frangi il giorno
con il suono della parola,
dissipando gli attimi di silenzio
tra le pieghe del sorriso.
Sei moglie, compagna e amante,
nascosta negli anfratti del consueto,
già avvolta nel domani.
rinaldo, marzo 2012


sabato 3 marzo 2012

Il messia

                                            Il Messia

    Il mondo delle fiabe stava vivendo un momento particolare, era animato in maniera inconsueta, c’era più brio del solito.
    Il “C’era una volta” era in attesa di qualcosa di nuovo e i colori dell’arcobaleno erano più vivi e splendesti, tutti i personaggi ne erano affascinati.
    I buoni e i cattivi, da sempre abituati a convivere in una sorta di armonia che solo nelle fiabe può coesistere, si scambiavano le loro impressioni.
    Perplessi, increduli, esitanti.
    Cosa stava accadendo?
    Era in arrivo il Messia delle genti del mondo delle fiabe.
    -Come sarà il suo aspetto, quali le sue sembianze- erano in molti a chiederselo.
    -Sarà un principe- azzardava il principe Azzurro della bella addormentata.
    -Sarà un mago buono- rispondeva il Mago Merlino.
    -Sarà una colomba- ribattevano i vari personaggi del mondo dei volatili.
    Il cicaleccio continuava.
    Lo scrittore, ormai con i capelli bianchi da un pezzo, era pensoso. Seduto dinanzi alla sua scrivania in mezzo ad un incredibile disordine di fogli scritti in tanti anni. La testa appoggiata sulle mani, lo sguardo pensoso.
    Non poteva più tardare ad inviare questo straordinario personaggio che da tempo maturava nella sua mente. Gli uomini raramente superano i cento anni  e lui li aveva fortunatamente raggiunti da qualche giorno.
    Doveva sbrigarsi a dar vita al Messia delle fiabe.
    In verità il mondo delle fiabe, dopo l’iniziale euforia, era in forte apprensione. Nel loro mondo i buoni e i cattivi coesistevano da sempre, anzi era da questa fusione senza complessi che la fiaba poteva esistere.
    Come avrebbe potuto trasmettere ai bambini le gioie e le emozioni di quella famosa mezzanotte, la Cenerentola dalle scarpette di vetro se avesse avuto una famiglia normale, se non avesse avuto la matrigna cattiva e le sorellastre acide e invidiose? E gli esempi potrebbero continuare all’infinito.
    Queste riflessioni venivano da una constatazione ben precisa: La maggioranza degli uomini non aveva recepito nel modo giusto il messaggio di Gesù, incapaci di seguire fino in fondo l’insegnamento ricevuto, aveva finito per adattare la parola del Messia alle proprie comode esigenze in un alternarsi di conversioni e ricadute.
    Un quadretto non molto edificante.
    Nel mondo delle fiabe, una divisione così netta tra il bene e il male esisteva già in maniera equilibrata e si rischiava di spostare i valori solo verso il bene togliendo competizione, interesse e gioia per le vittorie faticosamente raggiunte.
    Ponderando bene queste considerazioni, il grande mondo delle fiabe, al completo di tutti i suoi personaggi, si riunì nel gran salone del cielo. Seduti su poltroncine fatte di nuvolette bianche sparse nell’azzurro e, come solo tra loro è possibile,in un tempo incredibilmente breve, trovarono unanime accordo, decisero di formare una delegazione da inviare allo scrittore.
    I dodici saggi prescelti si presentarono a lui che, vedendolo, rimase stupito e meravigliato  di questa gradita invasione.
    I membri di questa delegazione presero la parola ed esposero con calma e serenità le loro proposte.
    -Noi temiamo che il mondo delle Fiabe possa essere alterato da un così importante evento. Noi coesistiamo con il bene e il male, il cattivo e il buono in una splendida fusione dove persino il cattivo può attirare simpatie e consensi. Ti preghiamo di desistere, anche se comprendiamo la voglia che hai di coronare tutto il tuo lavoro mandando tra noi questo tuo ultimo grande personaggio. In cambio di questa tua rinuncia ti offriamo un posto tra noi per quando arriverai alla fine della tua vita umana.
    Ti aiuteremo a portare tutti questi fogli in un mondo che ti piacerà, sono bianchi anche loro e formeranno per te una grande bellissima nuvola intensa e trasparente , intrisa di serenità e buoni sentimenti.
    -Pensaci-
    Il vecchio scrittore depose la penna, alzò lo sguardo verso questo scenario inconsueto e senza aver bisogno di riflettere a lungo, rispose:
    - Avete ragione. Sono anni che ho in mente di inserire questo personaggio tra voi e per anni la mia mano pur prolifica in tanti altri racconti , in questo non riusciva ad andare avanti . Ho capito che non posso, lo comune mortale , alterare il vostro mondo così splendido  di schietta fantasia. Continuò:
    -Perdonatemi per averci provato e la vostra proposta mi rende felice. Sono sicuro che una penna che verrà dopo di me , penserà a collocarmi tra voi in un modo che meglio non potrei desiderare.
    Tutti si guardarono soddisfatti. La missione era compiuta e i dodici prescelti tornarono tra gli altri personaggi per riassicurarli che il loro mondo delle Fiabe avrebbe continuato a rallegrare, i bambini e gli adulti, con continuità e senza alterazioni,


                                                    Maria Mastrocola Dulbecco 
scritto nel 1983
   

venerdì 2 marzo 2012

Nonna Caterina

     NONNA  CATERINA

Non ti ho mai dimenticata.
Eravamo sedute su quel balcone nelle lunghe sere d’estate io e te, nonna.
Tu pregavi. Io sognavo.
Tu pregavi. Io guardavo le stelle.
Quelle stelle, complice il buio, erano nitide e lucenti.
Qualche volta smettevi di pregare e parlavi con me. Mi raccontavi episodi della tua vita quando mi sentivi predisposta ad ascoltarti. Ricordavi cosa avevano raccontato a te da bambina e osservando la luna piena, una sera mi hai fatto notare come in quel disco luminoso si vedesse nitidamente la figura di un uomo che cercava di oscurarla. Mi dicevi “Vedi? È Bertoldo. Con un fascio di sterponi cercava di oscurare la luna e nel tentativo di coprirla, perché gli altri non lo vedessero mentre rubava i covoni di grano, vi rimase attaccato e fu condannato a restarci per l’eternità”.
Io vedevo chiaramente la figura da te indicata e pensavo a quel povero Bertoldo che sicuramente non si trovava a proprio agio in quella scomoda posizione.
Sono poi andati sulla luna, nonna, quando tu non eri più con noi. Quelle ombre non erano di Bertoldo, ma delle montagne ed io non ho potuto dirtelo. Non volevo crederci, ma dimostrarono che era così. In verità lo sapevamo anche prima, ma io preferivo credere a te.
Hanno cominciato così a distruggere i miei sogni.
Tu pregavi. Io fantasticavo.
No, non ricordo amore.
Già da piccola avvertivo che in quel paese non c’era calore, sapevo che sarei dovuta andare via.
Le strade erano di fango e le case non avevano acqua corrente.
Il banditore, a pagamento, annunciava dove andare a comprare i piselli freschi e se in piazza era arrivato il pesce o la frutta di stagione a buon prezzo. Si faceva precedere da due squilli e poi con quanto fiato aveva in gola reclamizzava la merce e il luogo.
I carretti tirati da asini e cavalli, partivano al mattino presto per i campi e tornavano alla sera in fila superando la salita della “curva” oppure quella più ripida della “fonte”.
Fatti importanti ne accadevano pochi, qualche nascita, un matrimonio, le due feste patronali del paese quando arrivavano persino i gelati.
Non dimentico due fatti importanti. Due omicidi a distanza di qualche anno uno dall’altro. La mia piccola mente non poteva concepire come un fratello potesse togliere la vita ad un altro. Non lo capivo. Non c’era amore.
Eppure le persone si sposavano e i bambini nascevano come in ogni altro posto.
Non c’era calore in quel paese, non c’era tenerezza, le carezze erano gesti ai quali gli abitanti non erano avvezzi. Gesti di cui ci si vergognava.
Il fango, il fango abbondava nell’inverno.
L’acqua sporca si buttava dalla finestra, un po’ sparsa perché si asciugasse in fretta. Quando era più abbondante la si portava con una tinozza fino al lato della strada dove veniva rovesciata in una cunetta scavata alla meglio, nella quale scorreva un rigagnolo che provvedeva a convogliare queste acque tutte nella medesima direzione, la “Forma”, un canale artificiale che si trovava a destra del paese.
Non c’era grande povertà e neppure grande ricchezza.
Il fango, tanto fango specialmente se pioveva e poi tantissimo quando subito dopo la guerra si fecero gli scavi per le fognature e per portare l’acqua nelle case.

In quel periodo era possibile camminare per le strade, soltanto grazie alla buona volontà di molti che, spinti dalla necessità, avevano provveduto a posare uno dopo l’altro, dei grossi sassi lungo i percorsi abituali.
Non c’era amore. Poi arrivarono le suore, delle piccole umili suore che si adattarono ai nostri usi e ci insegnarono che c’era l’amore di Gesù.
Accolsi nel mio cuore questo sentimento grande, ma anche questo lo tenni celato come ogni altro sentimento senza mai tradire emozioni che sarebbero sembrate strane.
Contegno, freddezza, rudezza.
Questo è il paese dove sono cresciuta e dove ritorno saltuariamente trovandolo sempre diverso ricordando che: io ero qui quando questa terra era ostile e regalava solo poesia, troppo poco per vivere e troppo per una pace senza risorse.
Ora tutto è in fermento, tutto in costruzione. I volti noti non ci sono più o ne vedi pochi, gli altri, i nuovi arrivati, sono tanti e li vedi padroni di quei tuoi sogni defraudati a te dalla vita che lenta, inesorabile, ti fa guardare avanti ma non ti permette di dimenticare.
Amavo il mare, il suo fragore lontano nelle giornate di burrasca.
Alla sera uscivo sull’uscio di casa e nel buio della notte mi lasciavo rapire da quel rumoreggiare lontano e affascinante che proveniva da quell’enorme massa d’acqua in movimento.
L’Adriatico doveva agitarsi moltissimo se a tre chilometri di distanza ne percepivo un suono così distinto.
In quelle notti il cielo era limpido e il mare si sostituiva alle stelle per regalarmi sensazioni stupende.
La battaglia della vita è ora come quel mare in burrasca.
Il mio mare è lontano, il suo rumore non giunge fino al mio udito.
Quella casa in mezzo agli ulivi non esiste più, le nuove costruzioni l’hanno soffocata; i dintorni hanno subito una trasformazione tale da rendere irriconoscibili quei luoghi ormai vivi solo nella memoria di chi li ha vissuti.
Era un casa dove si era sempre in attesa di qualcuno che doveva arrivare.
Prima la nonna che aspettava suo figlio che viveva al nord, poi mia madre che aspettava noi e di questo aspettare c’era tutta la speranza e il desiderio del ritrovarsi che aiutava a vivere.
Vivere. La vita cos’è.
La bontà cos’è.
La cattiveria cos’è. Cos’è la lontananza.
Spesso mi sono sentita come un’emigrante in patria. Si è sempre emigranti quando si va via, giovanissimi, da dove abbiamo imparato a conoscere, al mattino, da quale parte sorge il sole, e alla sera, dove tramonta. Si diventa senza più riferimenti.
Lontana da quei luoghi, non ho più saputo discernere l’alba e il tramonto, schiacciata tra il cemento e gli affanni.
Quando ho preso il treno, alle quattro del pomeriggio, in quella piccola stazione sulla direttrice Lecce-Milano, lasciavo alle spalle un paese che viveva arroccato sulla prima altura situata a pochi chilometri dal mare. Anche la breve distanza dalla stazione ferroviaria rappresentava un percorso difficile da superare poiché, anche se non sto parlando del medioevo, i mezzi di comunicazione e trasporto con i centri più vicini erano inesistenti.
Si viveva nel silenzio o meglio nel silenzio dei rumori familiari, quelli del fabbro, del falegname, anche quello della macchina da cucire di mia madre, delle campane e dei passi che risuonavano nelle strade.
Nei pomeriggi estivi, il paese dormicchiava e la calura conciliava le pennichelle dei suoi abitanti.

Eugenio suonava il “Vent’unora”, non ne conosco il significato ma allora era il tardo pomeriggio. In tempo di mietitura gli addetti a falciare il grano si fermavano per una merenda.
Poi Eugenio, che era il sacrestano suonava il “Vespro”, l’ “Ave Maria” e terminava la sua fatica chiudendo la porta della chiesa e avviandosi verso casa con un’andatura leggermente curva su un lato e un fare lento e pensieroso.
Suonava poi l’ “alba”, la “missitella”, il “mezzogiorno”.
Le campane scandivano la vita di tutti gli abitanti.
Alla domenica poi, in occasione della “messa cantata” suonavano a distesa.
Mentre queste scampanellavano, le donne in casa erano affaccendate ai fornelli e dalle finestre uscivano profumi di carne sul fuoco, pranzi riservati solo alla domenica poiché durante la settimana, sui deschi imperava solo la pasta asciutta impastata in casa, condita con semplice pomodoro e magari con una spruzzatina di pecorino.
La monotonia del suono delle campane che scandivano il tempo nell’arco della giornata, veniva rotta solamente dal diverso scampanio che annunciava una morte o l’arrivo di nubi minacciose che promettevano vento e grandine magari proprio in prossimità del raccolto del grano coltivato a grande maggioranza.
Il suono che annunciava a tutti la dipartita di uno degli abitanti era greve e lento. Rintocchi tristi che venivano ripetuti più volte a distanza ravvicinata e il numero delle volte era determinato dall’importanza del personaggio.
A quel suono le donne si affacciavano sull’uscio ad interrogarsi.
La vecchia Zia Maria chiedeva a Carmela: “Chi è morto?” “Non so” facevo eco zia Serafina affacciandosi alla finestra.
La nonna si spingeva più in là e arrivava sino in cima alla “ruella” che sbucava sul corso principale. Al primo passante chiedeva e dopo parecchi “non so” che duravano al massimo un quarto d’ora, di rimbalzo arrivava il nome.
Allora, la donna di casa si pettinava i capelli raccolti a crocchia sulla sommità del capo, si metteva un fazzoletto in testa legato sotto il mento, possibilmente nero, e correva a portare il primo saluto della famiglia, ai parenti del morto i quali erano già pronti per ricevere quelle visite seduti attorno al defunto adagiato sul letto allestito per l’occasione con la massima cura.
Alla sera andavano gli uomini, mentre le donne si organizzavano per la veglia notturna.
Prima della guerra non esistevano “thermos”, ma poi arrivarono anche quelli e così il caffè veniva portato caldo per tutti poiché in quella casa, mentre c’era il morto presente non si sarebbe acceso fuoco alcuno per cibi e bevande calde.
Ogni familiare era rigorosamente seduto al posto che gli competeva a fianco del letto, secondo il suo grado di parentela.
La stanza funebre veniva liberata da tutti i mobili trasportabili e al loro posto venivano allineate sedie in gran quantità così che i visitatori trovassero posto a sedere in circolo attorno al letto funebre.
Per quasi due giorni, tutto il paese sfilava e si soffermava in questa stanza come a voler tenere compagnia al morto, per l’ultima volta.
Il motivo non era solo quello; ci si ritrovava un po’ tutti ed era l’occasione per conversare, anche se sommessamente.
Qualcuno si fermava più del necessario per raccogliere maggiori informazioni sugli ultimi avvenimenti degli altri o aspettando magari qualche persona che non vedeva da tempo. A bassa voce si scambiavano notizie sulle loro famiglie e sui fatto dei paese e non di rado, si gettavano le basi per combinare matrimoni tra giovani che neppure si conoscevano, lasciando alla discrezionalità dei genitori valutare la convenienza sociale ed economica di favorire un simile approccio.
  
I componenti della famiglia del malcapitato, a turno, piangevano il morto a voce alta e con una specie di cantilena rievocavano la vita di costui esaltandone le qualità.
Nel caso il defunto in questione, in vita, fosse stato un po’ carognetta verso alcuni familiari, costoro coglievano l’occasione per intercalare le cantilene con frecciatine, più che dirette al morto, dirette alle persone in vita che avrebbero beneficiato dei torti da loro subiti e non raramente i chiamati in causa rispondevano con lo stesso indiretto sistema.
In questi casi l’eco si estendeva fuori dalla stanza, fuori dalla casa, così che i curiosi visitatori diventavano più numerosi per non perdersi le varie battute.
L’avvenimento di una morte si trasformava così in un’occasione per comunicare e conoscere le storie di attualità del paese. Era la televisione o il settimanale scandalistico dell’epoca, un bollettino che veniva ascoltato e riferito a chi non era presente.
Era cronaca rosa, cronaca gialla, argomenti sussurrati con autentico mistero, cronaca nera. Tutto il paese passava sotto i racconti delle croniste del tempo poiché le più informate erano sempre le donne.
La signora “bene” che non usciva mai da casa, mandava la serva a raccogliere informazioni e questa si documentava scrupolosamente per riferire ogni particolare che riteneva potesse interessare la sua “padrona”.
E queste erano poi le notizie sulle quali si sarebbero accentrati tutti i discorsi fino a nuovi avvenimenti.
Eugenio espletava tutte le incombenze relative ai funerali.
Suonava le campane a morto, preparava il catafalco, le sedie in chiesa e non dimenticava niente. Tutto veniva allestito secondo i desideri dei familiare e in proporzione alla retribuzione concordata.
Lui, Eugenio, suonava anche l’organo in verità un po’ sfiatato a causa del mantice ridotto in cattive condizioni e cantava i salmi con un biascicato latino che non era necessario fosse comprensibile; l’unico latino ‘conosciuto’ era infatti quello delle preghiere recitate dagli anziani del paese ascoltando le quali si poteva intendere quanto poco se ne masticasse.
Naturalmente c’era anche il parroco, ma Don Oreste poco si occupava di tali faccende.
Viveva ritirato nella sua casa dedicandosi al proprio arricchimento intellettuale che poteva coltivare anche grazie al fatto che egli possedeva una delle poche radio esistenti in paese che tra l’altro (si diceva che ascoltasse “Radio Londra”) gli permetteva di essere sempre aggiornato sugli ultimi bollettini di guerra.
L’ultimo atto della vita vissuta in quel paese era quello di essere accompagnato dal parroco e da tutti gli abitanti lungo il viale alberato che conduceva al cimitero.
Dal 1944 in poi nei discorso di tutti, gli avvenimenti venivano indicati come accaduti:
-          prima della guerra
-          dopo la guerra.

Sguardi
E ancora tu,
dagli immancabili sguardi,
immersi nel sorriso del presente.
Tue le parole affidate al vento,
il frutto di una vita.
      Rinaldo Ambrosoa

giovedì 1 marzo 2012


                    Silenzio.
Nel silenzio della stanza,
spezzato solo dal crepitare del fuoco,
sento i passi dei miei pensieri
che escono ad esplorare il mondo,
alla ricerca della pace.
Ma fuori c’è solo tanta confusione,
la gente cammina ignara degli altri,
ognuno immerso nei suoi problemi,
nessuno vuole parlare con nessuno,
convinto di essere solo a soffrire.
Forse pensiamo che il silenzio sia la soluzione.
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·                                   Lucia  Zucca
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